sabato 23 marzo 2019

GIUGNO 2018


                IL GRAFFIO DEL VIAGGIATORE
        
                   Per scrittori anarchici …completamente liberi


Anno 3 – Numero 41 – Giugno 2018



                                      IL GRAFFIO DI GIUGNO


Chai coffee chai! Chai coffee chai!


Atterraggio. Sono sul suolo indiano, a New Delhi.
Cambio gli euro in rupie (mi danno una quantità di lenzuola di carta che non entrano nel portafogli) e vado verso l’uscita: non è poi così male…cielo coperto e una sensazione di freddo su tutto il corpo….sì, freddo e ho capito solo dopo che era perché stavo iniziando ad evaporare! L’afa è talmente forte che annaspo.
Mi attende un pulmino scassato ma sempre meglio delle aspettative perché ero preparata al peggio. Ventilatori sul tetto, madida di sudore guardo lungo la strada che conduce al mio albergo a vecchia Delhi. Si trova in una stradina stretta, sporca, affollata, confusionaria e mille occhi che mi osservano.
La stanza fa pena, il water è incrostato non so di cosa e nemmeno Mastro Lindo ce la farebbe, puzza e le lenzuola sono chiazzate ma c’è l’aria condizionata e l’acqua corrente, mica male, in Africa questi lussi non me li sognavo nemmeno. Le pale sotto il soffitto girano senza sosta, l’aria condizionata è troppo forte e ci rinuncio.
Tutti girano in risciò o a piedi, trasportano cose sui carretti, vanno in tutte le direzioni, guidano come i pazzi, si urlano contro dai tuktuk e suonano i clacson all’impazzata. Mi hanno praticamente mollato a terra almeno tre volte dicendo che il posto dove dovevo andare era troppo lontano. Non se ne fregano nulla di nessuno, l’ho già capito. Qui la sopravvivenza è la sola priorità. Ed ecco i primi contrasti: Nuova Delhi è fiorita di giardini curati, grandi alberghi, strade larghe, macchine nuove. Una bambina secca come un chiodo e il visino sporco di nero fa le contorsioni in mezzo al traffico e mi guarda con immensi occhi tristi: è bellissima.
Old Delhi invece è un dedalo infernale di viuzze piene zeppe di gente che va in tutte le direzioni senza alcun ordine apparente, uomini, bambini, donne, vecchi, mucche, capre, il tutto è assordante, ti disorienta, ti fa venir voglia di urlare basta e ti tappi le orecchie, lo smog è asfissiante, la gente varia e colorata, tutti sono in movimento perenne ma non ti perdono d’occhio, ti fissano senza discrezione. I sensi sono anestetizzati: la vista dal viavai incessante, l’olfatto dal fortissimo olezzo di merda, spezie e frittura, l’udito dal folle clacsonare e dal vociare di centinaia di esseri, la bocca impastata dall’umidità e dalla polvere.
Le case a vecchia Delhi sono fatiscenti, coperte da un groviglio inestricabile di decine e decine di fili del telefono, della corrente, dell’illuminazione stradale e chissà cosa altro. I bazar sono un’esplosione di colori e odori di spezie e incenso.
È come stare in una sauna, sono di nuovo fradicia.
La cena all’Ajanti mi rifocilla: veg thali, riso bianco, dhal e roba piccantissima che mi fa lacrimare. Ma ho fame!!! A ritorno scanso la gente che dorme in terra per strada e crollo in albergo.

Oh Signore dell’Universo
ascolta questo figlio disperso
Che ha perso il filo e che non sa dov’è e che non sa
nemmeno più parlare con te
Ho un Cristo che pende sopra al mio cuscino
E un Buddha sereno sopra il comodino
Conosco a memoria il cantico delle creature
E ho massimo rispetto delle mille sure del Corano
C’ho pure un talismano che me l’ha regalato il mio fratello africano
ed io lo so che tu da qualche parte ti riveli
che non sei solamente chiuso dietro ai cieli…

Oramai il sole è tramontato ma il tempio di Amritsar è tutto d’oro e illuminato, in mezzo ad uno specchio d’acqua, uno spettacolo mozzafiato.
Rinuncio alla fila per entrare al tempio, lo ammiro alla luce del tramonto e della luna ma nemmeno qui riesco ad immedesimarmi nel misticismo indiano.

Il viaggiare in treno o in nave, su grandi distanze, mi ha ridato il senso della vastità del mondo e soprattutto mi ha fatto riscoprire un’umanità, quella dei più, quella di cui uno, a forza di volare, dimentica quasi l’esistenza: l’umanità che si sposta carica di pacchi e bambini, quella cui gli aerei e tutto il resto passano in ogni senso sopra la testa……d’un tratto sono costretto a riguardare il mondo come a un intreccio complicato di paesi divisi da bracci di mare che vanno attraversati, da fiumi che vanno superati, da frontiere per ognuna delle quali occorre un visto…spostarsi non è più questione di ore ma di giorni, di settimane……il treno, con i suoi agi di tempo e di spazio, rimette addosso la curiosità per i particolari, affina l’attenzione per quel che si ha intorno, per quel che scorre fuori del finestrino….sui treni l’umanità con cui si spartiscono i giorni, i pasti, la noia, non la si incontrerebbe altrimenti e certi personaggi restano indimenticabili…un paese è anche tutta una sua diversità e uno deve pure avere il tempo di prepararsi all’incontro, deve pur far fatica per godere della conquista… (Tiziano Terzani)

Amritsar – Jodhpur

Ore 8.15 treno di ritorno a Delhi. Più di otto ore nel nostro primo vero treno indiano…Senza aria condizionata, con i ventilatori a manetta sul soffitto, un puzzo indecente e un caldo appiccicoso che non ci ha mai dato tregua. I treni hanno la prima e la seconda classe, la differenza è un po’ quella che c’era sul Titanic: la prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento…. Poi ci sono i vagoni letto che costano un po’ in più e prevedono la prenotazione dei posti con nome, cognome ed età. Al momento di salire sul treno, vedrete un foglio di carta fissato su ogni carrozza che riporta i dati dei passeggeri e a fianco di ciascuno il numero di “cuccetta” che gli è stato assegnato!
Al ritorno a Delhi, ho provato una sensazione davvero inaspettata: stavolta, nonostante l’afa, Delhi mi sembra familiare ed accogliente, già “casa”…dopo cena vado da sola in albergo e quella strada affollata e rumorosa non mi fa più paura, anzi sorrido alla gente che mi guarda e mi saluta mentre io rispondo namastè col ghigno soddisfatto di chi si sorprende di se stesso! È bellissimo. Ci resterei un altro giorno invece mi attende il treno notturno per Jodhpur: 623 km in 12 ore.
Jodhpur
Io comincio a star male al mattino presto. Accidenti, mi ha preso il virus maledetto. L’arrivo a Jodhpur sarebbe stupendo senza questi crampi che mi tormentano.
A cena sulla terrazza siamo accompagnati da musica e danza per festeggiare l’indipendenza indiana. Sto lì ed osservo la bambinetta ballare. Avrà 10 anni e si muove come una donna. Qui è tutto diverso da come me l’aspettavo. Questo è un viaggio di persone più che di luoghi. Sono le persone qui che mi attirano: sono troppe. Le folle predominano, coprono il resto, il rumore assordante mi impedisce di concentrarmi sugli aspetti nascosti, i forti e spesso malsani odori misti all’afa mi stordiscono e non mi permettono di rallentare il mio ritmo, tutto è molto affannoso…

Jodhpur-Pushkar

Ore 7.30 sveglia e partenza per Pushkar con bus pubblico, 230 km per circa 5 ore. La pancia va meglio a parte qualche crampo.
Arriviamo a Pushkar alle 15 circa, sembra un posto di campagna, la strada è sterrata, ci sono solo vacche e carretti, niente automobili, né risciò perché è praticamente un morso, un paio di stradine e tanti negozietti. Fa caldino, l’hotel è molto alla buona, ma le stanze danno tutte su un giardino e poi è arioso e ci siamo solo noi. Facciamo subito un giro al lago sacro per gli Indù, consacrato al dio Brahma, creatore del mondo. Qui si viene in pellegrinaggio per morire o rinascere, vediamo i primi ghat (scalinate) e assistiamo alle preghiere e alle abluzioni. C’è un’infinità di cacca di mucca sui gradini ma loro ti impongono di toglierti le scarpe, prendere una manciata di fiori e scendere sulle rive dove dei falsi bramini ti fanno una specie di benedizione. Ci sono anche le scimmie, che saltano dovunque, vorrei fermarmi ad osservare la gente ma il gruppo riparte a piè veloce per visitare il resto del paesino. Non ce la faccio, stavolta ho bisogno dei miei tempi. Stiamo facendo le corse ed io non riesco a sentire e a respirare l’atmosfera dei posti, tutto quello che mi sta rimanendo impresso sono i treni e i bus! Eh no, così non va bene. Rallento il passo e resto indietro, da sola. Finalmente. Cammino con lentezza guardandomi intorno e fermandomi ad ogni metro: la prima sosta è per un chai, il primo preso per strada; il tizio lo prepara davanti ai miei occhi, fa bollire l’acqua poi ci versa delle foglioline di tè e continua a far bollire, mi chiede se ci voglio il latte ed io gli rispondo che lo voglio black, ci mette un po’ di zucchero e me lo serve in un bicchierino alto si e no 3 dita (in orizzontale!) ma davvero cocente e profumato! Me lo gusto camminando, parlo coi mercanti di argento per capire il prezzo dei gioielli, guardo i vestiti e le gonne lunghe, arrivo al tempio Indù tutto colorato e ne visito le stanze sotterranee. Me la godo, ho bisogno dei miei tempi, non trovo facile sottostare a tutti gli orari e alle corse, vorrei tanto che tutto fosse più rallentato, più riflessivo…

Pushkar-Jodhpur-Agra

Compriamo degli oggetti in argento. Non li vendono certo a poco prezzo o forse noi non siamo brave a contattare ma sono belli, specie i ciondoli e gli anelli. Camminando mi imbatto in una donna con un bambino piccolissimo in una sacca a tracolla. Mi dice che ha 26 anni e che quello è il suo quinto figlio. Le chiedo se è felice per i suoi figli, io non ne ho nemmeno uno, e lei mi dice di sì, che ha una bella famiglia ma ha fame…..mi prende sottobraccio e mi porta verso una di quelle bancarelle che vendono del cibo che io non ho mai saputo identificare. Arrivano altre tre o quattro donne. A quel punto mi sento in imbarazzo, bianca riccona, le lascio una bella banconota e la saluto dicendole di comprarsi ciò che vuole. Mi allontano pensierosa…non saprò mai cosa davvero pensa e prova una donna indiana in quelle condizioni. Ma non riesco a non invidiarla, per essere madre. Pranzo al Baba con riso e limone. Giuro che non ne posso più. Partenza ore 15 per Jaipur, in bus, circa tre ore, in “autostrada”, con tanto di sosta ad un “area di servizio” (mi viene da ridere ma giuro che non so come definirla) e dietro ai camion che ci superano lungo il tragitto noto che c’è scritto HORN PLEASE. Suonare per favore. Clacsonare. Questi sono pazzi! Continuo a ripetermelo: sono matti. Arriviamo a Jaipur e la scena muta completamente: ci sono i vigili, i semafori, strade larghe ma si clacsona lo stesso!
Ci dirigiamo poi in stazione in attesa del treno per Agra che arriva con un paio di ore di ritardo, ore da incubo. Sarà per il mal di pancia che si acuisce sempre più, ma non credo di aver mai visto in vita mia posto più lurido della stazione di Jaipur. La puzza è insopportabile, il caldo appiccicoso, la gente dorme in terra tra merda e sputi, i topi sono decine, scorrazzano tra i binari e poi si avventurano in mezzo ai viaggiatori e alle valigie poggiate in terra.
Sono stanca e disgustata e quando il treno arriva crollo per tre ore per essere svegliata alle 6.30 alla stazione di Agra.
Chai coffee chai! Chai coffee chai!
È il primo suono che si sente al riaprire degli occhi quando ti svegliano in un treno in indiano.

Agra-Urindavan-Mathura-Agra

Arriviamo al tempio delle vedove a Vrindavan. Queste sciagurate, per la sola colpa di essere sopravvissute ai loro mariti, vengono ripudiate dalle famiglie e costrette a vivere di preghiere ed elemosina, ai margini della società. Sono tutte sedute in terra e cantano, ricoperte da veli bianchi, avvolte in sari bianchi anch’essi, sono davvero tante, private di ogni dignità e qualsivoglia diritto. Il tempio è bello ma non riusciamo a capire cosa faccia la gente, il significato dei loro gesti ci è oscuro. Una mucca ruba la banana ad una scimmia che resta interdetta ed anche un pelo spaventata. C’è un tizio con un serpente nel cappello, è il primo che vedo e appena lui lo punta verso di me inizio a fuggire, come la scimmia dalla mucca! Mi sento meglio, gli altri se ne accorgono e mi fanno battutine e sorrisi. Son contenta, per colpa della mia devastazione fisica non ero ancora riuscita ad estrinsecarmi. Ce la farò?

Per molti giorni, per molte miglia,
con molte spese, per molti paesi,
sono andato a vedere i monti,
sono andato a vedere il mare.
Ma a due passi da casa,
quando ho aperto gli occhi,
non ho visto
una goccia di rugiada
sopra una spiga di grano.
(Tagore)

Agra-Jansi-Orcha

Ore 5.30 sveglia per andare al Taj Mahal. Alba, brezzolina, antibiotico. Sono di buonissimo umore, 3 minuti a piedi dal nostro hotel e siamo all’ingresso del Taj Mahal. È bellissimo, maestoso, mi dico che sì, ora vale la pena esser venuti fin qui, anche solo per questo. Gli intarsi nel marmo bianco, i ricami di fiori, le incisioni, tutto spinto verso il cielo, sempre da guardare a testa alzata. C’è poca gente, ce lo giriamo tutto in un paio d’ore, i giardini e le fontane in cui si rispecchia il tempio sono bellissimi, lo fotografo da ogni angolo, con le nuvole, col sole, riflesso nell’acqua, poi ci sediamo a terra a riposare, guardando il fiume e ci sentiamo leggeri…..non abbiamo bisogno di parole, siamo tutti lì, uno accanto all’altro, e stiamo bene…insieme. Sarà perché è un monumento all’amore, perché è imponente ma fa effetto. Per la prima volta sono emozionata. E per la prima volta sento il gruppo unito.
L’Agra Fort è un insieme di residenze reali dentro le mura, molto belle, fotografo una fanciulla bellissima, vestita di nero e argento, che cammina a passi leggeri come se fosse lì lì per salire sul tappeto volante del suo principe. Un’oretta e anche il Forte è nostro, visitato, divorato, adesso abbiamo fame di altro e decidiamo per il piccolo Taj Mahal, dall’altra parte del fiume. Prendiamo i tuktuk stavolta, abbandonando i romantici fantastici risciò, e passiamo sul ponte di ferro che unisce le due parti della città di Agra. Su di noi passava un treno merci con un assordante rumore di ferraglia, i nostri tuktuk si incrociavano, tra la polvere, con moto, carretti trainati da buoi, gente a piedi, risciò, e tutti addosso a tutti, in un tripudio di vita senza riposo per occhi ed orecchie. Bellissimo. Eccitante. Il piccolo Taj Mahal è una piccola meraviglia di marmi intarsiati, cupolette, finestre ricamate con motivi arabeggianti da cui filtra la luce, che tanto mi affascinano e mi fanno pensare alla tristezza degli occhi che potevano gettare uno sguardo sul mondo solo attraverso quei fori. Altro tuktuk, si riattraversa il ponte della meraviglia e ci si rimette in viaggio. Alla stazione di Agra facciamo volare dei palloncini e vediamo alzarsi in salti e sorrisi anche i bimbi fino a poco tempo prima seduti sui binari. Il treno per Jansi ha l’aria condizionata e si viaggia da Dio, ops da Shiva.

Orcha - Kajurao

Sveglia ore 8, colazione e giro per Orcha.
Orcha è immersa in una fittissima vegetazione, l’affollamento di Delhi e Agra è lontano anni luce. Il palazzo reale è un dedalo di stanze, cunicoli, scale che salgono e scendono tra i vari livelli, da una guglia all’altra, mi sembra di essere, anzi sì, sono in una litografia di Escher, è davvero incredibile, lo percorro in ogni anfratto per scoprire altre vie, è enorme.
Nella piazzetta di Orcha ci sono tanti vecchietti figli dei fiori con abiti coloratissimi, seduti in terra che fumano e suonano, cantano e chiedono la carità. C’è molta umidità, si respira a fatica. Lo so, non è una novità.
Si va a Khajuraho. 5 ore e mezza di viaggio per 290 km con tanto di foratura di gomma ma è stato davvero piacevole, ho finalmente provato la sensazione del viaggio dello spirito, del silenzio. La strada è un sentiero nel verde, il cielo è grigio piombo, le nuvole, nere e veloci, sono cariche di pioggia che inizia a venir giù proprio quando ci fermiamo su di un ponte a guardare un’enorme diga sul fiume. Giù, sotto il ponte, qualche centinaio di metri sotto di noi, ci sono due ragazzini che camminano lungo il greto del fiume. Ci guardano e sorridono. Ci rimettiamo in jeep giusto in tempo per evitare il nostro primo monsone. E pensare che prima di partire questa parola mi faceva così paura! È pioggia, viene giù fitta e violenta ma è solo pioggia, che al riparo puoi osservare con serenità, perché ha un suo fascino intenso, è bella la pioggia quando ti avvicina il cielo che si abbassa sempre più. Ma poi smette. E noi buchiamo, un’altra volta. Ci fermiamo, facciamo la riparazione. Mancano 33 km a Khajuraho, quando la jeep che ci precede frena di colpo e qualcuno si accorge che è volato giù un bagaglio. Indovina? Era il mio zaino!!! Caz, se Andre non se ne fosse accorto avrei passato il resto della mia vacanza con le stesse mutande. Sai che strizza! Invece anche questa è superata. Tutto sotto controllo!

Khajuraho

Alle 9 appuntamento con la guida per visitare i templi di Khajuraho in una specie di Valle dei Templi agrigentina. Stamattina fa davvero troppo caldo, la pioggia di ieri ha creato un’umidità estrema, abbiamo k-way e ombrello e invece spunta un fortissimo sole che ci abbrustolisce tutti! Ma resistiamo ammirando le sculture dei templi indiani. Quanto me li sono immaginati, anzi ci pensavo ma non riuscivo ad immaginarmeli, conoscevo quelli tibetani ma mai e poi mai avrei potuto pensare che non ci fossero altro che rappresentazioni del Kamasutra! La guida tutta compresa nel suo ruolo ci descrive ogni singola posizione, parlando di coniugare il piacere fisico e il nirvana, spiegandoci dei vari dei e delle loro caratteristiche ma non riusciamo a restare seri molto a lungo, è inevitabile che scatti la serie di battutine e risate sotto questo sole nefasto, in cerca della tanto anelata spiritualità indiana. E scusateci, ma proprio non se ne può più! Diciamocela tutta. Qui di spirituale c’è davvero poco ed io continuo a pensare a quando mi dicevano che non ci si può abbracciare. Eccerto!!! Hanno i templi con tutte le statuine in fila indiana (ecco perché si dice così!!!!) capre, tori, uomini, eunuchi, donne, elefanti, cani e chi più ne ha più ne metta, tutti uniti l’uno all’altro, in qualche modo, senza soluzione di continuità. Mi sono spiegata??? Se non altro realizzo che c’è sempre da imparare, che lo yoga serve e che posso essere sulla buona strada per raggiungere il Nirvana.

Khajuraho-Santa Varanasi

Prendiamo le bici e partiamo alla scoperta del villaggio e delle campagne di Khajuraho. Era così tanto che desideravo andare in bici e questo giro è bellissimo: piccoli sentieri dissestati, capre, donne con vasi in testa, bimbi che ti inseguono, insidiose piramidi di letame di vacca, pozzanghere di liquami vari, ragazzi che ti tormentano per farti entrare nelle loro botteghe, ponticelli improvvisati su corsi d’acqua. Dopo un’oretta inizio ad accusare il colpo. Fa caldo, non ho fiato e mi fanno male le gambe, ma loro vanno, vanno, accidenti son vecchia e fracica io o cosa? Ma reggo, mi piace troppo, un’altra ora fino a che non scoviamo altri templi e ricomincia a piovere.
Ore 15 bus per Satna, da dove prenderemo il treno per Varanasi. Piove di nuovo che Shiva la manda. Alla bus station si vedono scene di disperazione di alcune donne per la partenza di un’amica, per poco non si strappano i capelli, urlano, si battono il petto ma appena la tipa sale sul bus tutto si placa, di punto in bianco. Ci guardiamo esterrefatti. Evidentemente è una forma di saluto per mostrare dispiacere. Gli uomini, invece, caricano sacchi e casse sui tetti dei bus, e anche i nostri bagagli. Io trepido ogni volta e prego che li leghino bene e li coprano coi teloni, in difesa dal monsone. In bus mi siedo vicino a Guru e passiamo tutto il tempo a guardar fuori e a chiacchierare del viaggio e delle nostre sensazioni. A volte è così facile comunicare e così le 5 ore volano. Arriviamo a Satna in ritardo ma siamo bravissimi, montiamo sui tuktuk con una capacità di organizzazione ed una velocità da giochi senza frontiere e in 10 minuti siamo alla stazione dove scopriamo che il nostro treno è in ritardo di un’ora. Ma poi arriva. 480 km per 9 ore. Lurido come sempre, sono rassegnata, preparo la mia cuccetta (si fa per dire) e scrivo il diario mentre Zumbina sclera e dice che avrà bisogno di un anno di terapia per dimenticare tutta questa merda! Ci pieghiamo in due dalle risate, io ho le lacrime agli occhi e quando torna dal bagno e urla: “Ma come cazzo ci è salita la mucca qui sopra???
Arrivo a Varanasi ore 8 circa.
L’impatto con la stazione è quello di sempre: scendi dal treno e non respiri dall’afa, c’è un sacco di gente in terra ma qui c’è la novità che brucia qualcosa, sembra carbone. I tuktuk fanno la solita ressa per caricarci ed io li ammazzerei. Non sono la sola a sentire la voglia di prenderli a mazzate. Il nostro hotel è carino, affaccia su un ghat da dove ammiriamo un bellissimo scorcio di Varanasi sul Ganga River e iniziamo e vedere la gente fare le famose abluzioni e la puja. Conosciuta come Benares, il nome che porta è un ritorno al suo antico appellativo di “città tra due fiumi”, il Varauana e l’Asi. La Madre Ganga si incurva a mezzaluna quando passa per Benares. Lungo le gradinate scendono milioni di aspiranti ad una morte che liberi dal ciclo delle reincarnazioni. È un tripudio di colori, suoni, contrasti. Mi aspetto molto da questa città, mi aspetto di trovar qui tutto quello che cercavo in India ma visto come mi sento direi che cominciamo male.
Mi faccio un primo giro in solitaria per i vicoli. Gli odori sono forti, rigagnoli di scolo portano con se’ di tutto, coppette del chai, stracci, scarti di cibo, qualche ratto morto, per poi infilarsi, sempre più prepotenti, nella madre Ganga. Alle 14.30 arriva il bramino che ci farà da guida e passiamo quattro ore con lui alla scoperta di Benares: templi, stradine piene di gente, letame e vacche, buoi che a volte corrono all’impazzata e per poco non ti travolgono. Il bramino ci spiega i riti indu, ci porta in un negozio ad acquistare tessuti in seta, ci fa passeggiare giù per i ghat dove sfioriamo il Gange fino a sentirne l’odore: il sole è quasi tramontato, c’è qualcuno che lava i vestiti, chi trasporta un morto verso le pire, il fumo sale ma lo vedo solo da lontano e preferisco così.
La morte dicono faccia parte della vita: è quasi una festa perché loro credono nella reincarnazione….mah, io so solo che quando uno se ne va poi non torna mai più, non lo rivedrai più e questo mi fa male. C’è un’umidità che ammazza, snerva, sono costantemente grondante di sudore. A cena mi sparo un piatto di patate fritte per scacciare il pensiero della morte e godere appieno della vita, poi cerco un posto tranquillo per scrivere e pensare ma non c’è nulla da fare, arrivano tutti sul terrazzino panoramico e allora mi allontano, stasera sono asociale e cerco solitudine, sotto le stelle. Scendo giù al giardino e mi metto seduta davanti al Gange. Non è la sacralità di questo fiume che mi colpisce…è la sua leggenda, la sua storia, il suo fluire così carico di vita e di morte. L’acqua ha sempre un forte potere su di me. Un fiume, il mare, il cambiamento continuo nel suo restare uguale a sé, sempre. Perciò stasera sto bene. C’è finalmente il fiume. L’acqua trova da sola la via al mare. L’aria cosparsa di fumi soffoca spiriti, fiacca anime e dona la vita. Uno storpio deforme contende la sua cena a bastardi randagi. Una coppia di amanti si corteggia incurante del mondo, del suo significato e della sua fine. Un fiume, gigante d’acqua imperturbabile, trasporta silenzioso il suo carico di morte e di rinascita. Speranza che corre, speranza che si consuma. Solcando campagne buie costeggia roghi infernali, ne raccoglie le ceneri e i canti di dolore.
Il secondo giorno a Varanasi è molto intenso. Sveglia alle 5 per andare, in barca, a vedere l’alba sul Gange e la puja. Costeggiamo i ghat lungo i quali la città, al suono delle campane, prende vita, una vita frenetica sin dalle prime luci dell’alba. La corrente del Gange causa un’immane fatica ai rematori quando risalgono il fiume ma al ritorno invece è il fiume stesso a riportarci indietro per ridarci quel che ci aveva tolto. Tutti scendono a riva, un popolo colorato e rumoroso, si spogliano, lavano gli indumenti e poi si insaponano, si lavano i denti con estrema cura, pregano (o pujano, come dice Zampa) insomma, nella loro paradossale situazione questi indiani sono davvero puliti! I ghat sono un tripudio di abiti colorati, il giallo e l’arancio risaltano, sari che fasciano donne affaticate nel lavarsi tra i veli, canti, preci, fumo, barche.
Mi sento molto debole ma mi unisco agli altri nel pomeriggio per andare a Sarnath a visitare i templi tibetani e un piccolo zoo con Prakash, il figlio del bramino. Mi è piaciuto questo tour: preferisco Buddha a Shiva e al suo lingham! Da lì ci dirigiamo alla zona araba della città con fabbriche tessili in cui sono rintanati bambini che ci lavorano 12 ore al giorno per una misera paga (circa 40 euro al mese!). Il rumore che fanno i telai è assordante già dalla strada, dentro è l’inferno. Tessono stoffe e ricamano broccati, ti sorridono e salutano. Mi si stringe il cuore ma è inutile anche dirlo. La giornata prosegue con corsa alla guest house Shanti per la lezione di Yoga delle ore 8. Siamo sfiniti ma la terrazza panoramica ci offre un bellissimo scorcio di Varanasi al tramonto e il silenzio della lontananza dalla folla anche se le scimmie sono arrivate fin lassù per spiarci. In realtà lo spettacolo è esilarante. Provo a spiegare ai ragazzi che devono respirare solo con la pancia e fare movimenti lenti senza forzare. Ma appena il maestro ci fa fare la meditazione con la frase “Oooom nama Shiva” non ce la facciamo a restare seri e al momento di saltellare si sentono le risate soffocate di qualcuno. Io cerco di restare seria ma nonostante la stanchezza trovo che questa sia una delle cose più divertenti fatte finora!
Il bramino torna per portarci a vedere le cremazioni al ghat. Ridiscendi, c’ho le gambe a pezzettoni, vorrei tornarmene all’albergo ma è buio e a Varanasi non puoi girare da solo, è un labirinto senza uscita. Accidenti, mi toccano le pire. Ce ne sono quattro o più, il fumo riempie l’aria della notte, dall’odore acre, e le scintille delle fiamme saltellano sullo sfondo del cielo scuro mentre le campane suonano e un gruppo di soli uomini circonda la pira, in attesa di veder svanire tra le fiamme i loro morti. Alle donne non è permesso partecipare. Ho guardato e ho visto i resti di un corpo in fiamme e due piedi penzoloni che bruciavano e lì mi sono arresa, ho cercato rifugio sulle scale del ghat rivolta verso il Gange con un sapore di lacrime e sudore. Lo “spettacolo” della morte resta sempre una prima visione, per quanto ci si sia abituati è sempre una sorpresa, stordisce, aliena. E poi siamo andati a mangiare del cibo pessimo dopo una lunga attesa.
Why worry
there should be laughter after pain
There should be sunshine after rain
So why worry now….why worry now…


Varanasi-Calcutta-Bubaneshwar


Ore 9 circa arriviamo a Calcutta. Chai coffee chaaai! Chaaai coffeee chai! Le poche forze che ho le concentro tutte sul percorso per arrivare al taxi. Fuori della stazione ci sono lunghe code di taxi gialli, incolonnati in un ingorgo senza soluzione di continuità! Non vedo risciò, niente tuk tuk, che strano siamo arrivati in un posto completamente diverso da quelli visti finora. Al Garib Nawaz le stanze fanno davvero pena ed una ha un grande cagatone nel mezzo di un letto matrimoniale. Ovvio, la prima cosa che pensiamo è: come diamine ci è arrivata una mucca in questa stanza????
Calcutta è esattamente l’opposto di ciò che ci aspettavamo. Quasi una città occidentale, una boccata d’aria, persino rilassante a momenti. Tutto quello cui ci eravamo disabituati qui ritorna: strade ampie, asfaltate, vigili, niente mucche né capre per strada, niente tuktuk ma qualche risciò tirato da omini a piedi, palazzi alti, nuovi, classica città post-coloniale, che beneficia ancora di ciò che i signori invasori hanno lasciato della loro cultura occidentale. Hanno addirittura il loro bridge sul Gange, tutto in ferro, molto più imponente della Tour Eiffel e di cui i calcuttesi (?) vanno orgogliosissimi. E la metro, recente, pulita, alquanto efficiente. La stazione è ampia, pavimentata. Ci ritroviamo lì alle 21 per ripartire, dopo solo 12 ore di tregua. Il treno delle 22.30 ci porterà a Bhubaneshwar. 390 km da percorrere in 8 ore.
Chai coffee chai!
Ore 6 arrivo a Bhuba giusto il tempo di una doccia e colazione e arriva il pulmino che ci porterà in Orissa. Si gronda dal caldo, siamo in mezzo al verde, l’umidità è pluviale. Si parte alle 10 per Baliguda, altro trasferimento bello tosto, 350 km, ci metteremo più di 7 ore in tutto. Dopo le prime 4 ore di bus facciamo una sosta per mangiare mentre piove a dirotto. Ho mal di pancia (ancora!!!) e chiedo del bagno alla nostra guida, un antropologo di nome Srikant, e lui mi dà un ombrello, mi indica il retro della baracca e mi dice: “Bush Toilet!” Dopo un attimo di smarrimento e voglia di urlare, gli sorrido e depongo le armi. Ha ragione lui, perché disperarsi? La bush toilet è più pulita dei bagni comuni e non puzza! ….tutto sommato comodo!
Il pasto ci viene servito su piatti di foglie giganti intrecciate ed è buonissimo: riso, verdure fritte, puré, anelli di pesce fritto e birra. Poi altre 4 ore di jeep.

Bubaneshwar-Baliguda (Trek)

Partenza ore 8 per i villaggi. Ripeto FINALMENTE! Nonostante la fatica sono nel posto che più mi è piaciuto in tutto il viaggio. Natura e basta (vorrei dire incontaminata ma non so se per l’inquinamento dell’India questo aggettivo sia adeguato), il verde ha mille sfumature, alture, risaie, corsi d’acqua, villaggi di capanne con le donne dal viso tatuato della tribù dei Konda, bimbi sorridenti che ci inseguono e giocano con noi, agnellini, caprette e donne che trasportano acqua sulla testa con una postura così eretta che sembrano non facciano alcuno sforzo, vestite di verde come a mimetizzarsi con questa natura così benevola e avvolgente, silenziosa, paziente. Bellissimo. Respiro e mi riempio gli occhi e l’anima di tutta questa pace. Srikant è molto colto e ci spiega tante cose. È un piacere ascoltarlo. L’autista della jeep ci tormenta con una cassetta di musica indiana alquanto lamentevole. Cavoli, c’è la prima canzone della cassetta lato A che dura tipo 50 minuti! E ripete sempre la stessa strofa!!! Aiutoooooo!!!! Nel pomeriggio visitiamo una scuola, i bimbi sono seduti in terra e le loro sacche di tela servono da piano per poggiare i quaderni, hanno i grembiulini azzurri e i piedi scalzi. Vorrei farli vedere ai miei alunni che si lamentano quando nell’aula manca l’attaccapanni!
Là dove cielo e terra s’incontrano, nuvole danzano avvinghiate agli spiriti della foresta. Rocce di un nero mortale emergono dal mantello verde della dea terra mentre frammenti di montagne vengono cancellati da un creatore beffardo. Ed io gioco in questo scenario. Volteggio tra le cime, mi bagno della rugiada degli alberi. Sorrido al sole scherzoso ed accarezzo l’inconsistenza di fantasmi alati.
Una campagna lussureggiante, come ancella di proibiti misteri, finalmente toglie i veli che nascondono il suo tesoro. Respiro acqua e trasudo melodie ma improbabili guardiani controllano il fluire della vita. Legno umido, foglie traslucide, fiumi come di cioccolato e disegni di vite vissute in altri tempi compaiono da più punti lasciando intravedere scorci proibiti. Come poter non gioire di questa danza ultraterrena? Se degli insetti modellano la terra per innalzare colonne al cielo, se vene d’acqua corrono precipitosamente, se alberi differenti sopravvivono in simbiosi in un amplesso intricato di rami e linfe, se spicchi di cielo adornano il suolo umido, io non posso e non devo rimanere spettatore. Devo entrare come attore in tale rappresentazione: spero di essere degno dell’opera perché in essa risiede parte della mia gioia d’essere.

Baliguda-Ragayada

Ore 7 partenza per Ragayada. 280 km. Giro in un mercatino di spezie e pesce, verdure e frittelle.
Poi ci rimettiamo in viaggio verso altri villaggi in cima ad una montagna. Dunque, la jeep ci lascia e noi ci incamminiamo per il trekking con una guida che si perde un paio di volte e intanto inizia a piovere, tiriamo fuori i kway ma dio come piove! L’avevo desiderato il monsone, volevo bagnarmi fino alle ossa, l’avevo detto, per sentirmi parte del tutto, ebbene così è stato. L’acqua scende copiosa, le gocce penetrano tra le cuciture del kway, il cielo è grigio, il verde è intenso ma velato da questo fitto sipario di acqua sempre più abbondante. Sento i vestiti bagnarsi velocemente, la strada è in salita, resto ultima come sempre ma c’è Guru che butta un occhio, poi rallenta per tenere il mio passo. Amico.
Ad un guado ci fermiamo. L’acqua viene giù violenta e la guida è incerta sul cosa fare. Io preferirei tornare indietro ma il villaggio è vicinissimo, appena al di là dell’ostacolo. Così facciamo catena e attraversiamo il torrente camminando con l’acqua alle ginocchia. Oramai, bagnato per bagnato. Ed ecco il villaggio, gli altri sono già riparati con gli indigeni sotto le basse capanne di paglia, gli uomini hanno i capelli lunghi e le donne gli orecchini al naso e dei gioielli nei capelli. Vogliono a tutti i costi venderci i loro manufatti, dovunque andiamo siamo tormentati. Non so che darei per vedere una tribù intenta alla sua vita quotidiana piuttosto che questi gruppi già preparati a ricevere i turisti per recitare una parte e poi spillargli money. Ma chi non lo farebbe?
Sono infreddolita da morire, non sentivo il freddo da tanto! Di nuovo giù per i sentieri e di nuovo jeep verso l’albergo. Gonna lunga e maglia a maniche lunghe per recuperare calore. Cena e notte di lotta con le maledette zanzare.

Baliguda-Gopalpur

Partenza ore 7 per Gopalpur-on-sea. 320 km in 9 ore, il trasferimento è estenuante e 10 ore in quella jeep snerverebbero pure un Santone che ha raggiunto il Nirvana! Vediamo il mare alle sei di sera che non ci pare vero! Corro sulla sabbia, mi levo le scarpe, metto i piedi nell’acqua calda, scura e mossa. Foto al faro e ci rilassiamo. La spiaggia non è granché ma lo sapevamo che questo non era propriamente un luogo turistico per fare vacanza di mare. Fa nulla ci accontentiamo. Cena di pesce, giro notturno in spiaggia e finalmente sento il rumore del mare.

Gopalpur-Calcutta

Mi alzo con calma, faccio doccia e colazione e vado in spiaggia ma il mare se l’è mangiata tutta e così mi siedo sulle scale ma fa già un caldo insopportabile e sono solo le 8.30 del mattino! Qualche barchetta con la tipica vela quadrata indiana taglia l’orizzonte e gli schizzi della battigia mi bagnano il viso di salsedine. In lontananza un gruppo di bimbi gioca tra le onde, sembra una colonia. Ci sono delle donne che iniziano a spalare e caricare pietre in una specie di betoniera…che lavoro tosto, ed io che mi lamento per il caldo! Il nostro viaggio è ancora una volta estenuante. Arriviamo a Konark nel pomeriggio, fa troppo caldo. Visitiamo la Pagoda Nera e la guida ci spiega le solite statue e immagini del kamasutra, è incredibile, anche qui come Khajuraho!!! Ci pieghiamo dalle risate, la guida fa la corte a Catarì ma ha una camicia che ci avrà mangiato su e ci si sarò pure pulito il fondoschiena, con rispetto parlando, come dicono le nonne! I suoi denti poi appartenevano a qualche mummia, mi sa… Ritorno a Bhuba al ristorante e poi treno notturno per Calcutta. 670 km….lurido, pieno zeppo ma ero cotta, ho dormito e l’ultima notte in treno è passata!
Ore 6 arrivo a Calcutta.
Chai coffee chai! Chaaai coffee chai!
Siamo andate alla casa di Madre Teresa ed è stato molto emozionante. Abbiamo lasciato una donazione, chiesto se potevamo essere di aiuto ma erano al completo e poi abbiamo seguito un bimbo che ci ha portati in un posto dove gli abbiamo comprato del latte in polvere, su sua esplicita ed insistente richiesta. Poi siamo andate a visitare il Marble Palace, un palazzo di un tizio che ha collezionato oggetti d’arte e di antiquariato da tutta l’Europa, molto kitch ma carino.
Visitiamo la libreria e New Market dove abbiamo fatto sera a vagare tra le decine di bancarelle della frutta, argenterie e botteghe varie. Si è fatto buio e di corsa siamo tornate in albergo per andare a cena con gli altri. Solo che poi ci siamo perse e sono venuti a recuperarci. La cena era sulla terrazza di un grattacielo, si è mangiato bene ma quando sono andata al bagno era occupato da un topolone di città che non faceva complimenti. Pure al 30esimo piano??? Mah! Quest’India non finirà mai di stupirmi.

Homeward bound
I wish I was
Homeward bound
Home, where my thought's escaping
Home, where my music's playing
Home, where my love lies waiting
Silently for me.

I shall be telling this with a sigh
Somewhere ages and ages hence:
Two roads diverged in a wood, and I—
I took the one less travelled by
And that has made all the difference.
Questa storia racconterò con un sospiro
Chissà dove tra molto tempo:
divergevano due strade in un bosco e io…
io presi quella meno battuta e questo ha fatto la differenza.

Irene M.



Tutti coloro che vogliono intervenire con un loro pensiero, argomento, articolo di viaggio e non, sono invitati calorosamente a farlo. Sarà pubblicato sul prossimo numero del Graffio del Viaggiatore.

Grazie mille


ilgraffiodelviaggiatore@gmail.com




                                   PROGETTI PER LA VITA

Ho un nuovo business in mano, questa volta mi hanno presentato un progetto per coltivare funghi nella mia amata terra, Filippine.

                                       Ivan Ske



                
                  MUSICA PER CHI VUOLE VEDERE

"Oro mi maio" canzone brasiliana di cui Jovanotti ha preso l’armonia per Viva la libertà.

Max M.




                            RIFLESSIONE SULLA VITA

                                                           
                                      PENSANDO A TE

Scende una lacrima, lentamente scivola liscia, la sento sentire sulla guancia docile fino all’angolo della bocca e con la lingua la riporto dentro...dentro di me
è la prima lacrima dopo due mesi e non voglio perderla.

                                             Ivan Ske



                              
                               LEZIONE DI VIAGGIO


Dopo un lungo lungo viaggio di quattro Paesi: Vietnam, Thailandia, Laos
e Taiwan. Non ho trovato nulla ma il vuoto nel mio cuore.
"Approfondimenti di saggezza ...ci permettono di vedere il vuoto e
l'insoddisfazione fondamentale di una vita dedicata principalmente al
 perseguimento di fini materiali, a trascurare lo spirituale.
 Una tale vita pone necessariamente l'uomo contro l'uomo e la nazione contro
 la nazione, perché i bisogni dell’uomo sono infiniti e l'infinito può essere
 raggiunto solo nel regno spirituale, mai nella materia." 
"E' un fatto che non importa quanto sia gratificante il senso di una persona,
 non sarà mai soddisfatto.
 Il cibo materiale, le cose materiali, la gratificazione dei sensi materiali
 non possono soddisfare l'atma (anima spirituale).
 L'anima spirituale ha bisogno di cibo spirituale: cercare di soddisfare la
 propria brama spirituale con le cose materiali porta a consumo, avidità,
 invidia, violenza e guerre infinite. 
Gli occidentali hanno la stessa gratificazione dei sensi che si potrebbe
 desiderare, ma non sono soddisfatti.  Perché sono spiritualmente vuoti. "


Danvantari dalle Filippine







ANGOLO DELLA BATTUTA
Per dimenticarci di essere seri

Sai come si chiama l’uomo che fa il formaggio?
Sì, il pastore.
No… provolone!

Sai come si chiama l’uomo che fa il pesce ad una donna?
Si, cuoco.
No… baccalà!

Pino Bramante




                                          VERSI LIBERI


                                           Viaggio Saggio

                                     Viaggio saggiamente

                              per liberare la mente.

                                             Ivan Ske



                                                              
                                                                                                  I AM STILL FREE

                               I sogni e i progetti di chi non vuole smettere di correre...
                                    Scriviamo e lasciamoci andare sempre e ovunque…

Viaggiare con il cuore significa partire senza condizionamenti politici, mai e poi mai un vero viaggiatore si farebbe influenzare da un governo mal governante o dalle sue rigide leggi. Il vero viaggiatore lo va a scoprire da sé.


                                               Ivan Ske




                                             IL MURO

IL DOLORE PIÙ GRANDE PER UN VIANDANTE È TROVARSI DI FRONTE AD UN MURO AL DI LA DEL QUALE NON PUÒ ANDARE.



Susy




                              IL VIAGGIO IMMAGINARIO

IL VIAGGIO IMMAGINARIO È QUELLO CHE HAI SEMPRE SOGNATO E CHE NON HAI MAI REALIZZATO ...
QUELLO CHE PRENDE FORMA DI NOTTE E AL RISVEGLIO SI DISSOLVE NELLA MENTE ...
MA IL VIAGGIO IMMAGINARIO È ANCHE QUELLO DENTRO NOI STESSI
SENZA DUBBIO IL VIAGGIO PIU' PERICOLOSO ED AFFASCINANTE SI POSSA FARE ...
QUELLO CHE SCAVA SCAVA TROVI SEMPRE QUALCOSA CHE NON VA IN TE ...

SCAVA SCAVA TROVI SEMPRE STRADE NUOVE ... STRADE CHE PERCORRI CON CORAGGIO E TI CAMBIANO LA VITA ...

UN VIAGGIO CHE TI DA UNA FORZA MAI AVUTA PRIMA ... CHE APRE PORTE IMPOSSIBILI ...
SCONFIGGE ANTICHE PAURE ... E CI AIUTA A CAMBIARE ... A MIGLIORARE
LASCIAMOCI ANDARE AL NOSTRO VIAGGIO IMMAGINARIO ...

MA NON è BISOGNA VOLERLO!


https://www.youtube.com/watch?v=GdxUIZOzd5E&feature=share10


CIAO CARISSIMO

Da uomo comune aspetto le ferie in bacheca ed escono troppo tardi per volare oltreoceano così decido di partire per il grande nord per ammirare il sole di mezzanotte. Atterro a Oslo e scappo subito da una delle città più care del mondo per visitare i famosi fiordi norvegesi a Bergen. E’ davvero molto cara, sia per mangiare che per dormire. Io mi arrangio con la mia amaca legata ai tantissimi pini. La temperatura mite del giorno - buffo perché la notte non esiste – scende fino a 10 gradi e patisco un freddo tremendo.
Non demordo e continuo il viaggio fino a Tromso, fiero di essere nel circolo polare artico, ma qui la notte, si fa per dire, diventa terribilmente fredda per dormire all’addiaccio. Nota città per la splendida aurora boreale, gli alloggi non sono al mio budget e tiro fuori di nuovo la mia amaca infreddolita e dormo sotto un sole all’orizzonte. E’ un’emozione strana, la luna non si vede mai in questi mesi estivi e il sole perenne mi confonde il mio ritmo biologico di sonno mentre tutte le strutture chiudono agli soliti orari. Non riesco a chiudere occhio con il sole in faccia e purtroppo non ho una tapparella, una persiana o una tenda e mi rannicchio dentro l’amaca per nascondere la luce e specialmente per il forte vento gelato. Tremo tutta la “notte” per il gelo. Alla mattina mi sveglio che il sole si è leggermente alzato e mi accorgo che non smetto un attimo di tossire. Ho una tosse fortissima e un mal di gola infernale. Nonostante sono leggermente ammalato continuo fino a Capo Nord. Quando arrivo alla gigante sfera che rappresenta il mondo, simbolo di Capo Nord, avvisto sulla sinistra, una lingua di terra spostata di poco più a nord, quello sì è il vero punto più a nord della Norvegia, a parte le isole Svalbard. Anche se è tardi e non ci sono strade mi incammino in un trekking sui sentieri rocciosi, ma pianeggianti. Arrivato a Nordkap ammiro la bellezza infinita della fine della terra continentale. Oltre al Mare di Barents, uno crede ci sia l’Artico, invece ci sono appunto le isole Svalbard e solo dopo il Mare Glaciale Artico, il Polo Nord. Non posso più tornare indietro le mie forze sono esaurite. In questa zona estrema non c’è neanche un albero per la mia amaca, sono costretto a dormire a terra, mi sento la febbre salire, ho i brividi di freddo in tutto il corpo, inizio a delirare, a piangere dal dolore, sono totalmente a pezzi, non ce la faccio neanche a fare un passo. Nei dintorni non c’è un’anima viva, la smania di andare altrove, oltre ai turisti, questa volta me la farà pagare cara, molto più cara della vita in Norvegia. Ora il prezzo da pagare è la mia salute, la mia vita. Ho sbalzi di umore, a volte delirio e a volte sono contento, piango e rido quasi allo stesso momento. Non mi riconosco più, il cervello ha preso il sopravvento. Oramai è chiaro che non sono più lucido, ho la febbre altissima, potrei morire da un momento all’altro, ma nessuno mi può aiutare e come non bastasse ho anche il cellulare e il power bank scarichi. Purtroppo non posso chiamare o gridare aiuto, sono l’unico sul punto più a nord d’ Europa, il punto non turistico, non come quello di Capo Nord. Anche volendo gridare non ho più voce. La mia voce è diventata molto rauca e faccio fatica a respirare. E’ la morte che ho sempre desiderato, in viaggio, in viaggio con me stesso. In un attimo di lucidità tiro fuori la mia Japa-mala e inizio a recitare con l’unico filo di voce che mi è rimasto, il Maha Mantra: Hare Krishna Hare Krishna Krishna Krishna Hare Hare Hare Rama Hare Rama Rama Rama Hare Hare!
Non ci sarà mai più un domani per me, mi troveranno dopo diversi giorni congelato come un ghiacciolo con la mia Japa in mano.
Non ho mai stipulato un’assicurazione di viaggio e il trasporto della mia salma costerà caro ai miei. Grazie alla meditazione finale in punto di morte, Dio mi concede di “partecipare” al mio funerale. E’ stato sempre un mio sogno, quello di poter ammirare quanta gente ci sarà al mio funerale e sentire i ricordi o i pianti dei miei amici. Sono sopra tutta la folla riunita per il mio ultimo saluto, posso anche essere al fianco dei miei cari. Posso infilarmi ovunque a sentire tutti i discorsi, riesco a sentirne diversi contemporaneamente. Questa morte è fantastica! Rido alla ridicole parole del prete, parla come se mi conoscesse da una vita, ma chi cazzo lo conosce.
La prima luce della candela si spegne al momento dell'uscita della bara dalla chiesa e mi accorgo di perdere qualche potere sulla Terra, il Cielo mi sta chiamando a sé. Sono contento di essere trasportato dai miei quattro cari amici sulle loro spalle. Ma ho un ultimo desiderio: vedere sotterrare il mio ex corpo, ormai senza vita, senza nessun motivo di essere me stesso. Al sigillo della bara e all’inizio della sepoltura mi sento una felicità mai avuta prima, un senso di leggerezza come se fossi rinato. Ormai tutta la terra ha riempito la buca, sto per scomparire fino a che con la coda dell’occhio riesco a leggere sulla mia tomba: Carissimo Ivan né un turista, né un viaggiatore, solo un cittadino locale.


                       Ivan Ske




                                                        COSE STRANE DAL MONDO

                                          LE FOTO DI IVAN SKE

                                                       Lo sbuccia mango a Bogotà



ANGOLO DEI LIBRI

INVITO ALLA LETTURA


di Ivan Ske


LIBERARE LA MENTE PER SCOPRIRE SE STESSI

CARLOS CASTANEDA

TENSEGRITA’

I MOVIMENTI MAGICI CHE AUMENTANO L’ENERGIA VITALE


Non difendere con tanta passione il tuo splendido sé”…
In base alla spiegazione di don Juan sulla ridistribuzione, gli esseri umani, percepiti come conglomerati di campi energetici, sono unità energetiche saldate che hanno confini ben definiti che non permettono all’energia di entrare o uscire…
Ho sconfitto la mia mente”...” non ho una mente che mi dice che è ora di diventare vecchio, e non rispetto accordi a cui non ho preso parte. Ricordati sempre che dichiarare di non rispettare gli accordi a cui non si è preso parte non è un semplice motto degli stregoni: essere afflitti dalla vecchiaia, per esempio, è uno di questi accordi.”
Era libero da pensieri ingombranti e modelli comportamentali, vagabondava per mondi incredibili ed era libero…




una grande energia sorridere
mangiare il mondo correre all’orizzonte
ruggire emozionarsi


Non perdiamoci di vista... l’appuntamento è per il Graffio di
luglio
e ricordatevi sempre di chiudere gli occhi e di non smettere mai di sognare ...


perché il viaggio più bello, si trova nei vostri sogni ...

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